Intellettuali sulla scena (Leggendaria 1994,7) Parte prima: essere meridionali
Per molte di noi la meridionalità è un punto di vista, un comportamento, una questione di differenza che, come la più nota "differenza sessuale", non pone al centro l'altro/l'altra, ma appunto le differenze. Non crea gerarchie ma induce alla curiosità verso l'altra e alla ricerca dell'identità, magari ripulita da scorie appiccicaticce. Molte di noi affrontano il problema come ormai hanno imparato a fare: rileggendo la nostra storia, la storia del nostro territorio, investigando su ruoli imposti e ruoli accettati, su valenze da recuperare e riscattare e altre da superare e verificare come secondarie. Molte di noi si interrogano su come liberare e ri/creare un nuovo immaginario nel quale riconoscersi. Molte di noi sono impensierite da alcuni aspetti, da alcune degenerazioni delle donne nel Sud, come da alcuni aspetti, da alcune degenerazioni delle donne nel Nord. Certe volte addirittura a molte di noi scappa di pensare che certe mistificazioni dell'oggi sul "femminile trionfante" (quante donne ci sorridono dai rotocalchi o ci guardano con disapprovazione da tribune politiche, manageriali, culturali, giudiziarie etc..!) si appoggino anche su politiche ambigue portate avanti da donne.
Abbiamo comunque voglia di capire: se sono degenerazioni o semplici "aspetti", e soprattutto in che modo e quanto ancora o di nuovo paghino le donne, nel Nord e nel Sud, le relazioni scelte, subite, ricercate o che altro con i rispettivi uomini, con le rispettive strutture economiche e istituzionali, con le rispettive forme di malaffare, e così via. E abbiamo voglia di recuperare tutta la nostra storia, tutto il nostro bagaglio culturale, per sentirci più forti, per fondare sul fatto di non essere le prime a cercare nuove strade.
A molte di noi non piacciono proprio quelli che, certe volte nella stupidità della buona fede, certe volte nell'arroganza del progetto politico, affermano che "finalmente le donne nel Sud hanno cominciato a...denunciare, prendere coscienza..." e simili, senza considerare assolutamente quanta Storia importante ci sia alle nostre spalle (oltre che sulle nostre spalle).
Per contribuire alla ricostruzione della memoria e dell'immaginario riferito alle donne nel Sud, mi sarebbe piaciuto ri/nominare, sia pure velocemente, le presenze di tante che nel Sud hanno, relativamente ai loro tempi, reso visibile la propria presenza e la propria opera, per rendere loro omaggio e per offrire a chi legge una sorta di genealogia. Ma esse sono molte, poco o per niente conosciute, e dunque serviranno molti libri, studi e ricerche per ricostruire questo pezzo così importante della Storia nostra, di meridionali, e di tutte le donne. Anche limitandomi all'800, i nomi che mi vengono in mente, a parte le pochissime note, sono davvero troppi: Maria Raffaella Caracciolo, Carolina Cosenza, Orsola Benincasa, Cecilia De Luna Folliero, Maria Giuseppa Guacci, Giovanna De Nobili, Teresa Notarianni, Laura Beatrice Oliva, Giannina Milli, Enrichetta Caracciolo, Rosalia Lucchesi Palli, Teresa Filangieri, Marianna Giannone, Cettina Natoli, Maria Antonietta Riccelli, Ida Fusco, Virginia Fornari, Maria Savy Lopez, e tante altre. Senza contare le collaboratrici di giornali come "La Margherita" o "Un Comitato di donne". Certo è che a Napoli doveva esserci un certo fervore e una certa attenzione da parte del pubblico, se nel 1870 viene stampata, poco prima della traduzione della Mozzoni, "La soggezione delle donne tradotta dall'inglese per Giustiniano Novelli. Con un'appendice contenente notizie de le donne illustri".
Così ho pensato di restringere il campo privilegiando la profondità, e di presentare tre scrittrici, esemplari di quella soggettività femminile, propria delle grandi intellettuali.
Aurelia Folliero De Luna Cimino (1827-1895), Grazia Mancini Pierantoni (1843-1915), Fanny Salazar Zampini (1853-?) sono tre napoletane che, pur essendo l'unità della nazione da poco compiuta (e in qualche punto ancora in svolgimento), vissero l'appartenenza alla propria terra in modo, direi, interiorizzato, senza cadere nel particolarismo e senza vivere la "questione meridionale" come specificità, pur riconoscendo e additando certe differenze tra le culture e i costumi dei differenti territori, a livello nazionale e internazionale. Esse semplicemente cercarono e riuscirono a formalizzare, con la vita e con le opere, un "modo nuovo" di essere intellettuali, esattamente come fecero altre donne nel Nord d'Italia, in Francia, in Inghilterra, in America... Ho per questo completamente omesso di trattare, in questa sede, la loro produzione artistica (che pure fu di alto livello, specie per quanto riguarda Grazia), e ho privilegiato segnatamente il portato politico e culturale delle loro azioni, mostrando, per quanto possibile in questa sede, la profonda connessione tra percorso biografico e percorso intellettuale.
Protagoniste assolute dei dibattiti che in quel tempo (ma anche oggi) si portavano avanti, tutte compiutamente coscienti della propria condizione di donne, di meridionali, di appartenenti a quella fascia tra aristocrazia illuminata e borghesia intellettuale che determinò i modi del processo di formazione dell'Italia (e vale a dire che al tempo stesso sottrasse spazio alle donne eppure comportò anche che esse se ne prendessero); tutte vissute in ambienti familiari e culturali che influirono molto sulla loro formazione (la figura paterna e soprattutto la materna crearono una genealogia che va tenuta ben presente); tutte viaggiatrici, attente ai fenomeni politici e culturali, al destino delle donne, alla loro vita, alla loro produzione letteraria, tutte impegnate sui temi centrali di quegli anni: il lavoro, la famiglia e il matrimonio, l'educazione (specialmente quella femminile), l'impegno politico, la visibilizzazione dei corpi, la guerra, eccetera. Tutte capaci (nel senso pieno di "idonee e attente" all'accoglienza) di recepire i sentimenti e i bisogni delle altre donne, oltre che più complessivamente della società. Tutte riconosciute a livello nazionale, e qualche volta internazionale, da contemporanee e da contemporanei, tutte cancellate e rimosse, come è accaduto per tante altre, dalle storie letterarie, politiche e di costume: e non solo da quelle tradizionali (leggi maschili) ma anche dalle nuove, di donne, perché anche Aurelia, Grazia e Fanny fanno ancora parte di quel numero assurdamente e fantasticamente alto di donne importanti e dimenticate. Cancellate, aggiungo, anche dalla memoria cosciente delle loro figlie, non lo sono però dalla memoria che è nei nostri geni e che ci ha fatto così come oggi siamo: donne nel Sud, in questa città che come loro amiamo e respingiamo, rivendichiamo e desideriamo trasformare. I pensieri, la vita e le opere di queste tre napoletane vanno conosciuti perché esse sono, assieme ad altre, nostre madri. (segue prossimo post)
Aurelia Folliero De Luna Cimino, nacque a Napoli da Cecilia De Luna, poeta e scrittrice di grande interesse, e da Giovanni Folliero. A 10 anni Aurelia si trasferisce con la madre a Parigi dove conosce uomini e donne rappresentativi della cultura francese e italiana. Tornata in Italia, sposa il poeta e patriota Tommaso Cimino, col quale nel 1848 deve esulare in Inghilterra. A Londra Aurelia dà lezioni di letteratura italiana, francese e spagnola ai figli dei nobili. Tornata in Italia, fonda a Firenze la rivista "Cornelia", apre un Istituto agrario a Cesena, è corrispondente di "The Revolution", famoso giornale americano, e del parigino "Le droits des femmes". Muore nel 1895. Delle sue moltissime opere, tra le quali anche romanzi, drammi e raccolte di poesie, ricordo almeno "Stabilimenti agrari femminili" (Firenze 1879), "Questioni sociali" (Cesena 1882), "Teosofia moderna" (Roma 1893). In Questioni sociali, Aurelia raccoglie saggi, articoli, studi che mostrano l'intelligenza, la coscienza e la cultura di questa donna. Ecco i titoli: La questione femminile in Italia e all'estero, Riforme legislative e universitarie, Educazione e affetti, Istruzione, Idealismo e scetticismo, L'Opinione pubblica nella società. Tra le tantissime questioni che Aurelia affronta, segnalo: l'attacco che fa alla convenzione per cui l'esistenza sociale della donna si limita ai 25-30 anni, mentre è dopo i 40, afferma, che le donne possono "esercitare un'azione diretta sui costumi e sulle idee"; la difesa delle nubili, afflitte da luoghi comuni squallidi e volgari; la risposta a chi afferma che solo le donne vecchie e brutte sostengano i diritti delle donne, non possedendo più il gusto e la possibilità della seduzione sessuale tradizionale; la rivendicazione della presenza delle donne nei tribunali, nelle carceri, nelle Istituzioni, perché, sottolinea, il loro punto di vista è altro da quello degli uomini ("Non sembra egli giusto che la madre della vittima, la quale si vide assassinare sotto gli occhi la figliuola,...sappia che il giurì non è solo composto di uomini che comprendono la forza di un parossismo forsennato per contrariato affetto, ma anche di madri...?"); mette in guardia dai rischi del divorzio se gestito da leggi che ancora non abbiano accolto i diritti delle donne e allarga il discorso all'educazione delle fanciulle, alla loro necessaria autonomia economica e culturale; affronta il tema del diritto al lavoro ("Fra i pregiudizi più fatali alla felicità della donna vi è certamente quello che vieta alle fanciulle di condizione nobile l'esercizio di una professione o d'un'arte remunerativa"); si batte per scuole che diano una cultura completa alle donne, anche riguardo il corpo, che le preparino a tutte le professioni, anche a quelle scientifiche; auspica giornali e associazioni femminili che pratichino la solidarietà tra donne per dare loro forza contro le violenze degli uomini; raccomanda alle donne di "pensare un po' seriamente ai loro veri interessi, di adempiere con zelo i loro doveri, ma di non dimenticar del tutto i propri diritti, poiché alle volte anche l'esercizio d'un diritto è un dovere"; spinge a riflettere sulla stupidità della politica e degli interessi di potere ("Mentre sul nostro piccolo pianeta si va discutendo se uno dei punti microscopici della sua superficie debba essere governato da questo o da quello...e mentre l'uomo studia nuovi generi di torture...o come annientare gli eserciti e polverizzare i vascelli nemici coi loro equipaggi...un sole si sta scomponendo..."); ha magnifiche parole tuttora attuali contro la follia della guerra ("Quante pazze imprese e quanto sangue si risparmierebbe se la donna, che si tiene al di fuori dalle violente passioni politiche, e per ciò ha il giudizio più chiaro delle cose, fosse chiamata a consiglio. Come possiamo noi vantarci di civiltà mentre ogni giorno udiamo di guerre sanguinose le quali non hanno programma, non hanno causa eccetto la passione dell'orgoglio ferito, e l'insaziabile sete delle conquiste? Ed i popoli...vanno al macello non osando disputare la propria vita alla elastica parola, Gloria nazionale...", "Quando nelle prime preci che insegniamo ai nostri bambini, suggeriamo loro di pregare anche per nemici nostri secondo la parola del Sommo Maestro, non pensiamo già che fra pochi anni s'insegnerà ad essi che la guerra...è inevitabile e gloriosa", "Solo crederemo di aver raggiunto la civiltà quando la donna avrà il diritto di farsi ascoltare, quando invece che all'orgoglio nazionale si baderà agli strazi dei nostri cuori, al rispetto della vita umana").
Grazia Mancini Pierantoni nacque a Napoli nel 1843, figlia della poeta Laura Beatrice Oliva e di Pasquale Stanislao Mancini, a sua volta figlio di Grazia Maria Riola, donna di grande sensibilità, alla quale Grazia fu tanto legata da pubblicare suoi scritti inediti: "Il manoscritto della nonna" (Roma 1878). Fratello di Grazia è Eugenio che sposerà Eva Cattermole, la Contessa Lara. Nel 1848 la famiglia Mancini si rifugia a Torino, dove vivranno fino al 1860, anno del ritorno a Napoli. Dal '60, Grazia vive dunque tra Napoli, Torino, Roma, dove nel 1868 sposa Augusto Pierantoni. Muore a Roma nel 1915. Prevalentemente autrice di commedie, poesie, racconti e romanzi (nel mio "Narratrici italiane dell'800", Napoli 1987, ho pubblicato brani del suo racconto lungo "Donnina", Napoli 1892), Grazia ci ha lasciato anche un bellissimo diario "Impressioni e ricordi: 1856-1864" (Milano 1908) dove racconta della sua famiglia, del padre, della madre, del suo rapporto con Napoli, dei suoi primi cimenti letterari. Sulla famiglia e sull'attività dei genitori a Napoli nel '48, prima dell'esilio, torna anche in "Una pagina di storia: 1848-49" (Roma 1898). Ciò che qui voglio sottolineare è come nel diario di Grazia si legga compiutamente formalizzato nella scrittura lo sguardo di donna. Grazia ha sentimenti profondi riguardo la giustizia sociale, le difficoltà delle donne, specie se sole e non garantite da famiglie, nutre utopie riguardo un "mondo migliore", segue la politica e condivide i pensieri del padre ma li traduce in altro modo, considera le cose con una "donnità" che in qualche modo ci appartiene. Per esempio Grazia è stata educata ad essere una fervente patriota, ama Napoli e comprende quanto il dominio borbonico abbia pesato sulla cultura e sul costume della città, in più per tutta la vita denuncerà ingiustizie e prepotenze, eppure trova parole di autentica pietas, e qui ha solo 16 anni, nel soffermarsi con il pensiero sulle sofferenze umane dei sovrani, sulle fughe, sul loro sgomento ("Quando passo e levo gli occhi alla ridente terrazza sul mare, dove una giovane regina aveva sognato di grandezza e d'amore...provo un senso di tristezza"), come le trova nei confronti dei briganti che secondo alcuni meriterebbero la pena di morte ("I giornali sono pieni di racconti raccapriccianti: incendi, rapine, assassinii... Naturalmente anche le rappresaglie e le repressioni sono terribili, e chi sa quanti innocenti, o per lo meno non malvagi, perderanno la vita! Il favoreggiamento è colpa, ma è tanto umano il parteggiare per l'amico, il parente anche colpevole! Come rifiutare ospitalità ad un fuggitivo?", "Ed io penso: perché non si abolisce finalmente dal Codice la pena di morte, questo ultimo avanzo di leggi, che non possono più essere quelle dei popoli civili?"); ha parole indignate per i cortigiani che, prima schierati in un senso, dopo la sconfitta degli antichi padroni, ne cercano di nuovi; rimane perplessa di fronte a certi incarichi politici e amministrativi ("Perché non dirlo? Ci sarebbe da piangere e da ridere a un tempo osservando con quale fretta i posti migliori sono occupati da uomini meritevoli qualche volta, ma più spesso da martiri politici inadatti a diventare ministri...senza preparazione alcuna"); più complessivamente, si rende immediatamente conto che c'è qualcosa che non va nel nuovo governo della città ("Per l'ingresso del Re a Napoli il Municipio aveva decretato spese che a mio avviso si possono chiamare pazze...Oh quanto meglio se il denaro si fosse speso nel far ripulire i quartieri popolari...", "Bisognerebbe andar cauti, indagare le ragioni del malcontento che fermenta nelle province meridionali, non tanto irragionevole come si crede a Torino); rimane colpita dalla povertà che vede a Napoli, ma ha anche parole e giudizi che mostrano cura e attenzione per il popolo ("Come questi giovani sono laboriosi ed intelligenti! Capiscono a volo e valgono più degli operai che ho visto lavorare a Torino, mentre son pagati assai meno. E' una calunnia che il napoletano sia infingardo: ben diretto, riesce in tutto. Le piaghe del popolo qui sono l'ignoranza, la superstizione e la sudiceria") fino ad allargare il discorso per arrivare ad una fervida, sia pure ancora ingenua, denuncia sociale ("Ogni sera, ponendomi a giacere fra tiepide coltri, mentre la fiamma ancora arde nel mio caminetto, sento vincermi dalla tristezza e dal rimorso: penso ai giacigli su cui languono famiglie intere, penso ai lavoratori che debbono affrontare il gelo mattutino, ai piccoli bimbi dai piedini rossi trascinati fuori di casa. In quell'ora stessa le carrozze imbottite e riscaldate riconducono dai balli le dame sfarzose... Immagino allora sistemi complicati di pubblica beneficenza, bramo follemente di avere a mia disposizione molto danaro..."); rivendica alle donne il diritto/dovere di assumersi ruoli ben precisi ("Donne italiane all'opera: sarà vostra la colpa se fra pochi anni tutti questi fanciulli non cresceranno educati, istruiti, degni dei nuovi tempi").
Di Fanny Salazar Zampini, che nacque nel 1853 a Bruxelles dove il padre, Demetrio Salazar, patriota di origine calabrese, trapiantato giovanissimo a Napoli, era stato esiliato dopo il 1848, seguiamo per sommi capi il racconto che lei stessa ha fatto della sua vita nel bellissimo "Antiche lotte, speranze nuove" (Napoli 1891). Fanny ha sette anni quando è a Napoli nel 1860 a salutare l'arrivo di Garibaldi tra le braccia del padre. Ricorda l'atmosfera di quelle giornate. Ricorda la dolcezza e la cultura della madre, Dora Calcutt, e il salotto letterario-politico dei genitori frequentato da illustri personaggi, ricorda il fervore delle discussioni, i sogni che si alimentavano. Eppure a quindici anni fa un matrimonio proposto dai genitori e da lei accettato con leggerezza. Zampini ha venti anni più di lei ed è uomo interessato e meschino. Dopo il terzo figlio, rifugiatasi in campagna, comincia a scrivere versi, commedie, ma la prima opera importante è la raccolta di novelle "Tra l'ideale e il reale"(1878). E' con questa infatti che inizia l'attività di scrittrice, nel senso pieno di professione intellettuale: scrive e si fa pagare. Nel 1880 pubblica il "Manuale di economia domestica" tradotto dall'inglese con una prefazione sull'igiene e un "Cenno sui costumi del popolo napoletano". Intanto dirige la collana "Biblioteca azzurra" e pubblica nell'81 "Briciole". Nell'82 muore il padre e nell'83 la madre. Fino ad ora, pur avendo difficoltà, Fanny è vissuta comunque protetta e rassicurata dalla casa dei genitori che le sono stati a fianco. Ora è sola e da sola comincia ad affrontare nella vita e nella scrittura due problemi, due tematiche fondamentali che tali rimarranno per tutta la sua esistenza: il tema del divorzio e quello del diritto al lavoro per ogni donna. Infatti, essendosi nel frattempo separata dal marito, deve mantenere se stessa e i figli, e può verificare quanto sia difficile perché, da separata, non le riesce di trovare lavoro nelle scuole e, comunque, nascono meschini equivoci ("Risposi immediatamente a Monsignor C. osservandogli che se cercavo di occuparmi, era precisamente per conservare la indipendenza mia. Non avevo giammai chiesto né accettato aiuti da chicchessia, e non mi pareva giusto alludere a carità quando avevo parlato di lavoro". Partendo dunque dalla propria esperienza, Fanny afferma che è il modo di contrarre matrimonio che deve cambiare, è il modo con cui ci si arriva, le aspettative che si hanno: per l'uomo il matrimonio è sempre di convenienza. Per la donna è sempre un ricatto, perché non ha indipendenza economica. Oramai è parte del suo quotidiano lo scontro con l'organizzazione sociale, con la mentalità fatta di pregiudizi e di luoghi comuni, con la conseguenza che l'attenzione di Fanny nei riguardi della condizione delle donne in Italia, dipenda non da motivi culturali e intellettuali, ma dal fatto che la vive di persona e dunque il suo sguardo si fa più attento e la lettura della realtà attorno è sempre più chiara. Di nuovo in ritiro in campagna, a Cava dei Tirreni, scrive "Uno sguardo sull'avvenire delle donne in Italia" e nell'86 fonda la "Rassegna degli interessi femminili". La sede del giornale diviene salotto intellettuale (tra gli altri c'è Croce, "un mio giovane amico, dotto e modesto cultore di studi storici": a questa conoscenza Croce deve una certa attenzione alle donne della letteratura?). Ma le critiche fioccano: donne e uomini che fanno in una sede di giornale? E fioccano i problemi economici. Pur se sostenuto a parole da tanti, il giornale non ce la fa e dopo varie vicissitudini chiuderà nell'88. Ma prima ha tutto il tempo di diventare punto di riferimento di donne che vanno a raccontare le loro storie ("Non passava quasi giorno senza che chiedessero di parlarmi donne bersagliate dalla sventura. Erano creature straziate da tutt'i dolori a cui le condanna la schiavitù morale de' nostri pregiudizi, specialmente quelli contro il lavoro e contro la libertà individuale. Alcune, prive di mezzi, non potevano lavorare per divieto espresso del marito, del padre...Altre, e quante di queste!, erano le vittime dell'amore. Fanciulle sedotte dal miraggio dell'affetto da quei' vili che le avevano abbandonate dopo di averne carpito la fiducia con false promesse di matrimonio. Mogli sventurate i cui mariti le tradivano con altre donne...Scoprivo continuamente l'abisso dell'umana malvagità, la prepotenza e l'ipocrisia che s'impone alla nostra vita sociale. Da una parte gli uomini, a cui tutto è lecito per soddisfare i loro appetiti brutali, dall'altra le donne a cui si fa colpa financo di secondare i più delicati e generosi affetti"). Fanny affronta anche il tema dei bambini, figli di nessuno: "Non si vuole imporre agli uomini la paternità? e allora ritorniamo al Matriarcato!" Si batte per leggi contro i seduttori, per la ricerca della paternità, per la tutela dei bambini abbandonati. Attaccata dalla "Civiltà cattolica", Fanny risponde con uno splendido articolo "Difendiamoci!", contro i gesuiti, le ipocrisie, la maldicenza, l'ignoranza, rivendicando l'importanza della Pimentel Fonseca e della Sanfelice, accusa i gesuiti di posizione politica reazionaria e schiavista, collega la mentalità retrograda con gli interessi materiali ("temete -scrive tra l'altro- di veder svanire legati ed eredità"). E ritira il figlio dal collegio dei gesuiti. Intanto, unica tra le italiane, ha partecipato al Congresso Internazionale femminile a Washington, con una relazione che non può portare di persona, ma che le procura lettere e conoscenze d'oltre oceano. In Italia invece continuano gli attacchi, per esempio quello da parte di un giovane giornalista della Tribuna. Fanny rifiuta di essere difesa dai giovani amici che meditano duelli e agisce direttamente, convinta che una donna sola, da sola deve e può difendersi: il giornalista sarà licenziato e Fanny otterrà pubbliche scuse. Chiuso il giornale, stanca e depressa, si rifugia a Resina e qui comprende quanto sia necessario crearsi un pubblico, pubblicizzarsi, e comprende come sia impossibile fermarsi, comprende l'orgoglio di essere una combattente. Così, nonostante che molti e molte la sconsiglino, decide di fare pubbliche conferenze. Fanny ha imparato a muoversi con maggiore diplomazia: Il ciclo di conferenze a cui è stata invitata è sulla schiavitù in Africa, organizzata dal cardinale Lavigerie. Fanny sposta il discorso sulla schiavitù delle donne in Italia. Inoltre scrive ai maggiori giornali italiani, chiedendo loro di prestare attenzione alla questione femminile e dunque alle sue conferenze. La seconda è "Convenzionalità e riforme", la terza "Igiene e bellezza". Intanto si prepara il Congresso internazionale delle opere ed istituzioni femminili, a Parigi nell'89, e Fanny, che è stata invitata, pensa come procurarsi un incarico ufficiale che le permetta di andare anche in Inghilterra. Mentre cerca tale incarico, ripete le conferenze segnatamente per fare soldi e si occupa di letteratura straniera: scrive, tra l'altro "La vita e le opere di Robert Browning ed Elisabeth Barrett", "Studi sulla vita e le opere di Cristina Rossetti e Jane Austen". Nel 1890 manda un intervento alla Esposizione delle Arti e delle industrie femminili di Firenze. Intanto continua a lavorare al Programma della scuola per ragazze: fondamentale, scrive, è che le donne possano godere della condizione che vivono negli alti paesi, e cioè sicurezza di sé, lavoro indipendente, possibilità di incrementare la produttività femminile grazie alla libera loro inventiva, e poi libertà individuale, intellettuale, di pensiero e di azione. Riferendosi alla classe media, Fanny fa i conti in tasca ad una famiglia media: le entrate vanno dalle 3000 alle 5000 lire all'anno. Le spese per la casa sono intorno alle 1200 lire; cibo, luce, ecc. 3600; restano 200 lire per vestiti, libri, medicine... Se poi non sono 5000 ma 3000 lire le entrate è materialmente impossibile vivere. La condizione delle maestre è insostenibile, quella delle casalinghe è eroica ecc. Insomma il discorso non è astratto, ideologico, di principio: la questione femminile diventa questione sociale, generale, economica, per la produttività di un paese, per la morale di un paese. I paesi civili sono tali se tale è la condizione della donna. Tutto ciò fa paura e attorno a lei si fa il vuoto, ma ciò che a mio avviso non può essere perdonato a Fanny è appunto l'operazione di visibilizzazione del corpo. Intanto va a parlare in pubblico, offre cioè il suo corpo agli sguardi, ai commenti, fa sì che la gente veda una donna che pensa e parla. E in tutto ciò che scrive, il corpo è l'elemento fondamentale di svelamento. Per esempio un suo libretto sull'igiene avrà tanti problemi per la pubblicazione perché la Commissione Municipale lo giudica "non spirituale": lei, infatti, ha attribuito al fisico, al corpo quanto in genere è attribuito alla morale. E' una questione che si sostanzia proprio nel linguaggio che Fanny usa: non più "sentimenti" ma "sensazioni" e ciò è grave. I diritti delle donne che Fanny rivendica (al lavoro, alla libertà, al rispetto, alla visibilità) contraddicono quel corpo debole, quella fragilità nervosa che sempre più diventano le caratteristiche assegnate alle donne dalla letteratura del tempo. Così Fanny svela il punto di vista maschile di tanta letteratura che per di più ha una funzione deformante per la mentalità delle donne: nella letteratura queste "eroine" pallide, senza corpo vero, definite "nevrotiche", malate di "spleen", sono l'immagine che di esse hanno gli uomini, anzi sono l'auspicata realizzazione della loro aspirazione. Ma le donne sono pallide, ribatte Fanny, perché portano busti troppo stretti. Fanny osa affrontare anche il discorso dell'educazione sessuale: ritiene infatti non sia più possibile che le donne siano ignoranti in materia e vadano totalmente impreparate incontro alla vita e al matrimonio. Nei Conventi si preserva la loro ignoranza e si creano delle "semi-cretine" o esaltate mistiche, o maliziose. Così Fanny propone corsi di anatomia e fisiologia, contro le figure delle "ingenue". Solo così cadranno le morbose sentimentalità e le imposte ipocrisie e i miti più decadenti del romanticismo idealista. Fanny vuole anche che le donne studino il diritto, le leggi che le riguardano, per sapersi difendere e per saper attaccare. La conclusione a cui arriva Fanny è: "Queste riforme dobbiamo studiarle, suggerirle, chiederle, stabilirle, imporle noi, noi Donne, se ci convinceremo una buona volta, che non siamo al mondo per divertirci, per sognare, per servir soltanto da comparse sul palcoscenico della vita"
Anna Santoro