1999 - Introduzione a I secreti de la Signora Isabella Cortese, ne' quali si contengono cose... Venezia, Bariletto, 1561

13 Aprile 2017

Introduzione a I secreti de la Signora Isabella Cortese, ne' quali si contengono cose minerali, medicinali, arteficiose e alchimicbe, e molte dell'arte profumatoria, appartenenti ad ogni gran signora. Venezia, Bariletto, 1561

Introduzione alla copia anastatica, a cura di Anna Santoro.

Comune di Napoli, Assessorato alla Dignità,Biblioteca nazionale di Napoli

Marzo Donna 1999

 

Tra il 1561 e il 1677, il delizioso volumetto che qui presentiamo, I secreti della Sig. Isabella Cortese, ne' quali si contengono cose minerali, medicinali, arteficiose e alchimicbe, e molte dell'arte profumatoria, appartenenti ad ogni gran signora, avrà per lo meno 12 ristampe, segno di una fortuna editoriale non comune. Augurandomi che altre (o altri) approfondiscano in futuro l’esame dell’opera, sono lieta ora di restituirlo al godimento di chi lo leggerà, per ciò che di grazioso, curioso, forse provocatorio, esso contiene. Certo è che l’immaginario creato in noi da tanti film, romanzi dell’orrore, ma anche dai fumetti, primi tra tutti quelli di Disney, lo ritroviamo tutto in queste pagine, nelle quali si nominano bollitori sospetti, alambicchi, mortai dove triturare animali, piante, sostanze varie, scorpioni (almeno 100 o 150) indispensabili per molte misture, eccetera.

Dell’autrice non sappiamo che il nome. Forse romana (la famiglia Cortese proviene, pare, da Roma e a Roma nasce l’umanista Paolo Cortese), forse toscana (anche in Toscana esisteva un forte “ceppo” della famiglia), forse veneta (non perché il libro sia stampato a Venezia, allora capitale editoriale e culturale -ma va detto anche che a volte le note editoriali erano fasulle per raggirare la censura di stati meno liberali- ma perché anche in Veneto si fermarono i Cortese, e soprattutto perché le citazioni di nomi e di luoghi e la collocazione “europea” di tutto il discorso fanno pensare ad una facilità di comunicazione, di libertà di pensiero e di conoscenza, in quegli anni caratteristica del territorio veneziano), forse, ma con minore probabilità, legata a Napoli (dove nacque, nel 1575, e visse il poeta in lingua napoletana Giulio Cesare Cortese), certo è che Isabella Cortese fu  donna di cultura, di successo e di incerto destino.

I “segreti”, che Isabella raccoglie e propone, riguardano l’Alchimia, la pretesa arte di trasformare in oro metalli vili, di controllare e usare il rapporto con gli astri e la loro influenza, l’arte cosmetica, e una sorta di ricettario medico che oggi chiameremmo “naturale”.

Il volumetto è diviso in tre libri, con, in aggiunta, una sorta di appendice. Nel Libro I vengono raccolti prevalentemente rimedi per curare o per prevenire peste, avvelenamenti, fistole, piaghe, mal francese, calli alle mani, disturbi renali come la presenza della renella e simili. Nel Libro II, vengono illustrati prevalentemente i procedimenti per preparare l’inchiostro che dopo qualche tempo scompare, per affilare, rafforzare o fondere il ferro, per colorare le pietre in azzurro, verde, rosso, per fare una colla tanto resistente che con essa si possano costruire manici di coltello e piatti simili all’avorio, per mettere l’oro sui libri, per conciare, ammorbidire, tingere le pelli, per restituire lucentezza al raso, per restituire colori alle vecchie stoffe, per tingere i capelli, per fare i rubini, eccetera. Nel Libro III, tra altre amenità, troviamo i segreti per fare profumi, ciprie, saponi, creme e acque per le mani perché siano morbide e bianche, per il viso affinché, eliminate macchie, rughe, imperfezioni, splenda di giovinezza, per la salute e la bianchezza di denti e gengive, per tingere capelli, peli, barbe, eccetera.

Naturalmente molte di questi procedimenti sono oggi improponibili. Per esempio, tra le tante ricette per “far bella la faccia”, c’è quella (p.67) che, come ingrediente principale indica “una gallina grassa impastata e pelata, e asciutta, e cavati gli interiori, e asciugata dal sangue con una pezza” : tagliata a pezzetti minuti affinché entri nell’alambicco assieme a ammoniaca, mirra, vernice, incenso eccetera, dopo che sia stata distillata e dopo che sia stato aggiunto muschio, canfora ed altro, è pronta per l’uso. In alternativa alla gallina, vanno bene anche due piccioni. O quella (p. 36) che, per “far drizzare il membro” suggerisce, tra l’altro, l’uso di “testicoli di quaglie, formiche maggiori con le ali...”, o, ancora, quella che (p. 32), per levare macchie d’inchiostro, indica, in alternativa all’aceto bianco fortissimo, l’orina calda, usata anche, ma che sia di “fanciullo vergine”, per un’altra delle ricette per “far bella faccia” (p. 67), e per una delle tante per “tingere corna, ossa e ogni altra cosa”, questa volta necessariamente di “fanciullo di cinque o sei anni” (p. 74).  Eppure, chi ne abbia desiderio, in questa nostra epoca di new age, potrà andare a verificare la bontà di alcuni suggerimenti, non so quanto credibili, ma semplici da realizzare, come quello per tingere i peli bianchi in nero (bastano fichi verdi (p. 32), o per fare la ceretta (p. 68 e p. 69). Infine, alcuni consigli di bellezza, in qualche modo, sono arrivati fino a noi, semplificati. Per esempio, (p. 57) per far bianco il viso e contro le lentiggini, si usino rape, zucchero, uova,  o anche (p. 58) schiuma di miele, bianco d’uova sbattuto, o anche, (p.60) limone, miele, latte, uova.

Questo volumetto riveste una certa importanza anche per altri versi che, mi auguro, saranno investigati ora che è stato riportato alla luce. Il contesto in cui I secreti... va collocato, e al quale il libricino rimanda non solo nel taglio complessivo ma anche grazie a precisi richiami, mi pare faccia i conti non solo con la cultura magica e alchimista, ma anche con i grandi temi di dibattito filosofico-religioso-sociale di quegli anni (platonismo, aristotelismo e antiaristotelismo), e, più specificamente, quelli attorno alla natura dell’anima, all’equilibrio tra corpo, anima e intelligenza, allo spirito cosmico e al rapporto dell’uomo con gli astri e con le influenze astrali, all’importanza della “pratica”, eccetera.

Nella dedica al “Molto Reverendo Monsignore Mario Chabiga, Dignissimo Arcidiacono di Ragusa” (antico nome di Dubrovnik), Isabella, mentre usa il convenzionale tono delle dediche, a metà tra l’adulazione e la sfida, allude al rapporto tra uomo investigante e natura segreta e ribadisce il concetto di imitazione nei confronti della natura (l'uomo si fa “scimmia della natura”). I segreti, sottolinea Isabella,  si colgono attraverso l’investigazione, l’osservazione, la riflessione e la pratica. E, a esempio di ciò, all’inizio del Libro I, Isabella, prima di offrire il primo rimedio contro i veleni, ne racconta, diremmo oggi, la sperimentazione sugli uomini. Ad apertura del Libro II, invece, Isabella mette in guardia contro i falsi filosofi, in particolare contro Geber (nome occidentale per indicare Abu Musa Giabir el-Sufi, autore arabo del sec. VIII), Raimondo (probabilmente Raimondo Lullo), Arnaldo (probabilmente Arnaldo da Villanova) e detta dieci regole precise, di varia natura: dalla raccomandazione della segretezza a minuziose descrizioni di come debbano essere i vasi in cui operare, alla necessità della conoscenza dei metalli e dei materiali. Materia, forma e privazione sono alla base delle cose naturali, e cioè corpo, anima e spirito. Il corpo è la canfora, terra purissima che nessun filosofo ha voluto nominare, base indispensabile per una serie di manipolazioni e di ricette. Essa, assieme all’argento vivo, lo spirito “desiderato da tutti i Filosofi”, permette il compimento della perfezione, cioè l’anima. Come già segnalavo prima, Isabella ribadisce più volte che è la Pratica che mette insieme le cose e fa sì che divengano sapere acquisito, ricchezza da usare.

Vorrei ora far notare la bellezza della grafica (in verità consueta in queste antiche edizioni), che anticipa in certe pagine la poesia visiva moderna, e la tecnica “narrativa” usata dall’autrice. Isabella, nelle ricette,  enumera gli ingredienti, dà in dettaglio e raccomanda l’assoluta fedeltà al procedimento, e, alla fine di ogni ricetta, chiude con sicurezza lapidaria : “e guarirà”, “e sarà libero senza fallo”, “e cesserà”, “e subito sarà libero”. Una delle ricette per “far bianchi i denti”, ad esempio, dopo aver fornito ingredienti e procedura e aver assicurato che i denti “verranno bianchi”, aggiunge: “se per caso le gengive ti venissero bianche e volessi che tornassero rosse, piglia del sangue di drago e mele rosato, e fa bollire, poi lavale, e torneranno rosse” (p.59). E ancora attiro l’attenzione su quella sua ironia, sul gioco che, a me pare, Isabella crea con chi la leggerà. Ad esempio, quelle sue raccomandazioni di segretezza, fatte sfacciatamente in una pubblicazione, oppure quell’ammiccamento, nel dare avvio alle segnalazioni degli antiveleni, ai pericoli degli inviti a pranzo. Si legga (p. 2) : “Chi avesse sospetto di magnare veleno in alcun luogo, dove andrà a magnare, ungasi prima che vi vada una volta il cuore e poi che sarà tornato un’altra volta”.

Infine, voglio segnalare un ultimo punto. Scrivevo all’inizio della fortuna editoriale del libretto: devo ora aggiungere che, dopo l’ultima edizione che ho avuto tra le mani, quella del 1677, la dodicesima appunto nell’arco di  un secolo, di Isabella e del libricino non ho più trovato menzione. Anche per questo mi sembra inevitabile ricordare che siamo negli anni della Riforma e della Controriforma, del Concilio di Trento (1545-1563), della caccia alle streghe. Nonostante le precauzioni di Isabella nel richiamarsi sempre alla grazia di Dio, certo il suo libricino, così vicino a discorsi proibiti, a riflessioni in certo senso sacrileghe, con in più quel tono, a tratti, di provocazione, non dovette apparire innocuo a coloro che, per molto meno, mettevano in catene o mandavano al rogo donne e uomini.

Anna Santoro

 

 

 

 

 

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