Piccola nota sulla poesia e Leopardi.
L’occasione per questa breve nota su alcuni aspetti della poesia e del pensiero di Giacomo Leopardi mi fu offerta dalla lettura del volume "Leopardi nella critica internazionale" (1), volume ricco di spunti e di suggestioni. Partendo da alcune "tracce" (2) dunque, cercai di fare alcune mie riflessioni riguardo il rapporto tra pensiero e parola poetica e riguardo il senso della modernità di Leopardi.
Fare poesia, secondo uno dei moderni modelli poetici, è “dire l’ineffabile” (3).
Riuscire a dare forma al “non ancora pensato” è operazione creativa che investe e coinvolge l’unità del mondo emozionale, della forza intellettuale e della fisicità del soggetto creativo, che nel fare, nel poiein, si affida, in certo senso, alla libertà etica e di segno che è riuscita/riuscito a conquistarsi.
Il “pensiero”, quello razionale, cosciente, persegue altri modelli (anche poetici), perché, misurato dalla “parola”, da segni “finiti “ (significanti) che rimandano alla cosa (significato), è in grado (e desidera) unicamente di trovare le parole, i ritmi che diano forma a se stesso. Questi segni sono tramite di crescita per il pensiero e ne sono il limite.
Quante più parole sappiamo, più possiamo articolare il nostro discorso, ma esso rimane chiuso entro il “senso“ che i segni portano per convenzione, non può andare oltre, a meno che, appunto, non li liberiamo e, per dirla con G. Benn, nel momento che troviamo le parole che cercavamo, ci accorgiamo che esse dicono più e altro del progetto iniziale, razionale.
Poeta è colui/colei che riesce a dire ciò che fino a un momento prima era non solo indicibile ma impensabile. Poeta è chi rinnova la lingua e dilata la capacità di comprensione e di conoscenza sua e della lettrice/del lettore. Poeta è chi dice ciò che in altri modi non può esser detto e, così facendo, dà “senso“ a quell’indicibile, a quell’impensabile, da cui in prima istanza era stata/o mossa/o e crea “cosa che prima non c’era e poi c’è” (4). Questo non vuol dire che la parola crea il mondo, ma che il mondo è conoscibile attraverso la parola, o altri segni e linguaggi, e che l’artista attraverso i suoi segni, il suo poiein, svela/crea “cose” e dunque prospettive.
L’Infinito è esemplare di questo discorso : Leopardi compì nel linguaggio poetico uno “scarto” che sta a noi riuscire a cogliere per poter intendere la sua poesia. Nella poesia moderna lo “scarto” diventa un “valore” poetico ed etico, perché alla deviazione sul piano dell’espressione corrisponde una qualche alterazione sul piano del contenuto (5). Infatti “non basta violare un codice per scrivere un’opera poetica (6)… C’è differenza tra frase assurda e frase poetica. E la differenza sta che in questa ultima gli scarti sono riducibili affinché il poeta possa rivolgersi al suo lettore. Insomma la poesia usa “un linguaggio che il poeta ha dovuto inventarsi per esprimere quello che egli non avrebbe potuto dire altrimenti “(7).
Leopardi, nel verso 15esimo, sottolinea Conti, accosta “naufragare”, “dolce” e “mare”, creando, tra i primi due termini, una specie di sinestesia (scarto linguistico/semantico di grande modernità), chiave per comprendere L’Infinito. “Naufragare“ è un termine comunemente letto in chiave negativa, e “dolce“ invece è un termine “positivo”. Leopardi usa il termine “naufragare” in una accezione diversa dal senso consueto che gli viene attribuito. “Naufragio“ è “perdita di nave”, cioè di sicurezza, in questo caso il “pensiero”, che si è già “perso” nell’ “immensità”. Si è perso, è naufragato lo strumento con cui si affronta l’esterno, cioè il mare, la vita, la morte, tutto il resto. Ed è “dolce” questo smarrire il “pensiero”, quello razionale, della conoscenza precisa ma ristretta, quello che non dà spazio al “non ancora pensato”, quello che era base della poesia “espressiva” o “rappresentativa” classica.
E’ l’immensità che ci contiene, nel momento che si smetta di incaponirsi a possederla unicamente con gli strumenti razionali. Questo non-pensiero esprime la necessità di “altro sguardo”, e cioè anche di “altro soggetto”, altro uomo (altra donna ?).
Lungo tutto l’arco dell’attività poetica Leopardi perseguirà questo compito di trasformazione della mentalità, di lotta all’ignoranza, alle “fole“ della gente che lo circonda. Con lui la poesia diviene lezione di libertà, di rinnovamento, lezione civile e politica, attraverso le trasformazioni, gli scarti, del linguaggio poetico stesso. Leopardi muta la lingua per mutare il pensiero, il modo di pensare (suo e degli altri).
Su questa linea mi pare si possa trovare un collegamento tra questo “mare“ e gli “uomini“ de La Ginestra. E’ dolce abbandonare la difesa (la nave, il pensiero razionale, le consuetudini) alla quale generalmente ci affidiamo, per unirci agli altri, e diventare, come quel mare, “altro pensare”.
Mi viene in mente Pirandello, quando fa dire nel Mattia Pascal al professore che l’uomo identifica la vita in quei lumicini che porta, mentre la vita è quello spazio buio oltre il suo sguardo. Leopardi, grazie alla poesia, va oltre il suo sguardo, va oltre il suo pensiero.
Questo modo di “fare“ poesia, la quale possiede molti modelli e compie molti percorsi, è un “fare” moderno. E’ tra la fine dell’800 e i primi del 900 che si afferma questo fare poesia. Riferendosi alla poesia moderna, Cohen scrive che “l’unità” , perduta a livello nozionale, viene recuperata sul piano emozionale, ed è questo l’impulso profondo di tutta la poesia moderna”(10).
La poesia non nasce dal tumulto dei sentimenti, nasce dopo (se nasce). “Fare poesia“ è differente da “sentire”, ma il livello emozionale, attraverso cui anche il lettore deve passare per intendere la parola poetica, è un attraversamento obbligato per chi poi “voglia e sappia fare poesia”, è il luogo dove nasce l’urgenza di trovare una “grammatica“ per un “senso“ che sfugge, è il luogo dove il senso perduto grammaticalmente si ricrea e ridona senso alla grammatica.
Il poeta lascia naufragare il pensiero, il suo sguardo è così ampio e profondo da annegare, ma nel poiein ritaglia attraverso il (e grazie al) linguaggio un piccolo riquadro, una “visione“ che si fissa come certezza, in un certo senso, e spiega al Poeta stesso, e al Lettore fortunato, almeno una “cosa” del ondo. Questa “visione“ è la visione di una rimembranza, di un ricordo (11). Ricordiamo Benjamin e il suo “narrare un’esperienza memorabile”, l’unica degna di essere narrata, appunto perché se ne conserva memoria. Ma dove ? Secondo Proust non nel pensiero razionale, in quello che ha tutto sistematizzato e classificato, ma in quegli spazi della memoria affettiva, del sentire, che, sollecitati per caso, tornano a imporsi nel ricordo. Perché di ricordo si tratta :”mi fu”. Ricordo rinvigorito da un’esperienza che dura tuttora, che è presente come i tempi di tutti gli altri verbi : “mi fingo”, “spaura”…
Queste ultime considerazioni aprono la strada a due discorsi, entrambi legati alla poesia, ma anche al “pensiero“ e alla poetica leopardiana, e tra loro strettamente connessi, quello del sentimento della decadenza e quello della rimembranza.
Se L’infinito è l’idillio, punto di arrivo della poesia di immaginazione e l’unico dove non ci sia Dolore, questo è perché Leopardi più tardi farà poesia della propria “agghiacciante” percezione della realtà (12). L’aspirazione alla felicità, tema di matrice illuministica centrale della poesia leopardiana, si scontrerà sia con la ricerca razionale della stessa felicità, sia l’ intuizione della definitiva “matrignità” della natura.
La contrapposizione natura/civiltà, in poesia, si slega dalla contraddizione segnalata da alcuni studiosi negli scritti “razionali”.
Ciò che interessa Leopardi poeta è il sentore della perdita della colleganza tra il proprio sguardo (la civiltà) e la “cosa guardata” (la natura). L’incontro e l’incanto sono in crisi. E’ in crisi l’aura che nasce dall’incontro degli sguardi. Perché l’occhio che guarda non é più ingenuo e immaginifico ma razionale e insieme sentimentale, guastato dal suo essere sguardo del secolo XIX, e d’altro canto, Leopardi ci arriverà poco dopo, la “natura“ stessa “guarda“ sempre meno, oltre che a causa della debolezza dell’attrattore (lo sguardo), anche per sua stessa corruzione (o trasformazione).
La natura é matrigna non tanto nel senso di non essere più “madre” (cioè, in metafora, buona) ma matrigna (in metafora: cattiva), ma nel senso che é “altra”. Si é trasformata. La stessa poesia, allora, dovrà inventare modi e linguaggi nuovi che saranno necessariamente ambigui e ricchi e profondi come lo è la natura. Dovranno in certo senso essere “matrigni”, perché sono “altro” in mondi così trasformati, e anche quella particolare “natura”, che è l’arte, non è più madre ma matrigna. Porta dolore e non rassicurazione, non quiete. Non gratificherà, ma sconvolgerà, svelerà.
Linguaggi dunque ambigui, che forzeranno il senso, come avverrà definitivamente di lì a poco con il decadentismo e con il simbolismo. Linguaggi che diverranno sempre più difficili da leggere, tanto da lasciare perplessità nel lettore, forse anche nell’autore stesso.
Insomma se sul filo del ragionamento le contraddizioni nella ricerca di un “sistema” contraddistinguono il discorso leopardiano, se le parole della ragione in Leopardi appaiono contraddittorie e ora investono la filosofia e la civiltà incivile, ora la natura, e se, riguardo il concetto di “decadenza storica”, é difficile identificare la sua posizione, nella poesia, nel suo far poesia, è più agevole per noi, una volta "entrati nella terra del poeta", comprenderle meglio, perché Leopardi poeta “sa“ più di quanto pensi (13). La poesia rappresenta la composizione, sia pure ambigua, che avviene di fatto grazie al “fare poietico” . E per “ambiguità” si intenda complessità, capacità (nel senso proprio di capiente di ogni cosa) della poesia, la quale sempre più dilaterà la propria polisemia. Una poesia è una “cosa“ e rientra nel mondo, fa parte della natura e ne “dice“ l’ambiguità. Leopardi ancora, giustamente, avvertendo l’ambiguità, desidera possederla finché non si lascia possedere. E comunque intende il rapporto tra gli sguardi, e nel fattempo comincia ad avvertire quella “caduta dell’aura” che rende “oggetti” gli altri soggetti che sono nella natura, togliendo loro l’anima, cioè la possibilità di possedere un “proprio“ sguardo.
Con questo non intendo tornare alla lettura di un Leopardi “poeta della decadenza” o, men che mai, “poeta decadente”, bensì vorrei segnalare che Leopardi via via rappresenta il processo della perdita di “incanto“ tra lo “sguardo“ del poeta e la “cosa“ guardata, avvertendo la progressiva perdita dell’aura che nasce dall’ “incontro“ appunto tra chi guarda e ciò che è guardato. Perdita che è alla base di tanta poesia moderna.
A differenza di Baudelaire che sancì in qualche modo questa “decadenza dell’aura” e su questa e grazie a questa fa poesia, senza rimpianto, per Leopardi questo evento fu avvertito con dolore e sdegno. Allora capiamo che l’ “altro sguardo“ “annega” nella “cosa guardata” pur di conferirle ancora un primato, una certezza di presenza (alla natura, alla vita, agli uomini). In più c’è la richiesta, ora ironica ora rabbiosa ora dolorosa, di una risposta, di un “incontro“ che, grazie alla poesia, nella sua poesia avviene.
Benjamin chiarirà il sentimento della decadenza dell’epoca moderna e assegnerà a Baudelaire il primato di poeta della decadenza. Ma Leopardi, a mio avviso, aveva visto per primo molte cose, prima dell’ottimismo positivista e della conseguente delusione. Non tanto e non solo perché l’Arte arrivi prima della scienza (14), ma perché, insisto ancora, il linguaggio della poesia e la parola del poeta sono “creatrici”, nel senso di “svelatrici”, più ampie e profonde, più articolate, delle parole della scienza.
La modernità di Leopardi non sta solo nell’essere precursore, non sta solo in questa comprensione e in questa rappresentazione anche dello strazio con cui considera le cose, è la coscienza della fine di un’epoca, l’amore per la favola, che lo fa poeta in certo senso epico, antico, il che fa parte della sua modernità, meglio : della sua attualità e lo fa poeta a noi contemporaneo.
L’incontro tra la coscienza dello stato delle cose e la tensione al sogno, alla felicità, all’utopia (sempre presente nella sua poesia) e il modo con cui questi elementi si incontrano nella sua poesia, lo fanno poeta antico e moderno, cioè poeta sublime. In certo senso, la “decadenza“ che Leopardi scopre ora nella società, ora nella natura, è, direi, una decadenza di tipo “verticale”, all’interno dell’uomo, della società, della storia. Il discorso è ampio, metterebbe in ballo la particolare nozione di “astoricità” riferita a Leopardi, l’influenza vichiana, la sua percezione resa sensibile dal possesso della parola. Insomma a me pare che Leopardi sia giunto alla conclusione, che è conclusione fuori tempo (alla quale cioè uomini e donne di ogni tempo possono arrivare e sono arrivati), che “è così”. Punto.
E’ solo la poesia e comunque la vita a far riprendere la vita, nonostante questa assoluta percezione. In questo senso la poesia è “creare“. E a mio avviso non è più la poesia “fatta“ che ha funzione eternatrice (Foscolo, e in qualche modo perfino Nietzsche), ma il “fare“ poesia dona questa possibilità di rimembranza, cioè di continuità della vita, grazie all’azione di creazione che la poesia stessa possiede.
E intrecciamo così l’altro discorso al quale prima accennavo. Nel bel saggio “La poetica della memoria nei grandi idilli leopardiani”(15), la Ugniewska, citando un passo dei “Dialoghi di Torquato Tasso e del suo Genio Familiare”, ripropone un parallelo tra Leopardi e Proust riguardo il ruolo della memoria (analogica nelle loro rispettive opere). In effetti entrambi gli autori, pur così lontani per altri versi, proprio attraverso la “memoria“ riescono a “vedere“ la cosa e riescono a universalizzare tale visione.
Eppure a me pare che se per Proust vale ancora l’analisi di Benjamin riguardo la memoria involontaria, cioè la memoria che “sorprende” e riporta in modo più autentico la situazione del passato, in Leopardi straordinariamente ci sia coscienza della inconoscibilità delle cose, le quali infatti posseggono sempre un “doppio”. Quindi direi che il poeta assegna con maggiore chiarezza il ruolo di “creazione” alla parola poetica. In più, il “ritornare la seconda volta” sulle cose determina conoscenza, nel senso di fine delle illusioni, per quel che riguarda “ciò che è veramente accaduto”.
Quell’immaginazione che Proust crederà possibile solo in assenza dell’oggetto, in Leopardi si attiva spesso proprio per antitesi all’oggetto presente.
C’è un “altro mondo“ (l’altro sguardo, l’ altro pensare) che nasce proprio dalla poesia, cioè dalla capacità di “vedere ora“ ciò che un tempo era il “vedere“ dell’illusione. E la complicità, e forse semplicemente l’accordo che Leopardi chiede al Lettore “invitato” allo stesso impegno introspettivo, sottolinea la Ugniewska, ci riporta al ruolo non privato, non intimista della poesia leopardiana, ma ad un ruolo civile di svelamento e ri/creazione della realtà circostante e di scandaglio come opera di coscienza di ri/trasformazione. La coscienza nitida di Leopardi della irreversibilità del passato lo porta, afferma la Ugniewska, a fermare nella poesia l’irripetibilità in senso rilkiano. Attraverso questa poetica della memoria, Leopardi nei grandi Idilli crea un mondo mitico, l’unico mondo che ormai potesse interessarlo, e non come fuga dalla realtà, vorrei precisare, ma come costruzione di un “magnifico”, mi pare, nel senso di “alto sentire”, che poteva ancora essere proposto ai contemporanei, e che ai moderni ha fatto parlare di “titanismo”.
Molto giustamente la Ugniewská sottolinea, citando anche Binni, come in questo modo poesia e filosofia non solo convivano ma si scambino doni. Se, lo sottolinea anche la Ugniewska, “so“ si oppone a “sento”, la parola poetica riesce a “dire“ (dunque a ”sapere“ e a “farci sapere“) poiché quel “sento“ è tanto più profondo e ampio del “so”. Eppure la poetica della memoria (non l’uso del ricordo) avrà breve vita. A lei succederà, annota la Ugniewska, la “poetica del presente”, ossia della realtà, che sancirà la perdita della illusione e che pure, presentando accanto alla fredda e totale infelicità l’impulso a riannodarsi alla realtà vera, cioè agli uomini, a mio avviso gioca ancora sul “doppio”. Più essenzialmente lacerata, e comunque più che mai poesia.
Anna Santoro
Note
1) Mario Santoro (a cura di) : Leopardi nella critica internazionale, Quaderni di Esperienze Letterarie, Napoli, Federico, 1989.
2) Necessariamente potrò tener conto unicamente di alcuni interventi presenti nel volume, non solo perché altrimenti il discorso sarebbe troppo lungo ma anche perché questa breve nota é legata ad alcune “tracce” e ad alcune “tematiche” a me più congeniali e care.
3) Pier Giorgio Conti, Quaderni…cit. pag. 27-40. Indicativo già il titolo del saggio: L’Infinito o del paradosso”.
4)T. S. Eliot (L’altra voce della poesia, in Sulla poesia e sui poeti, Bompiani, 1960) a pag. 107 cita il poeta G. Benn “Questi (il poeta) ha in sé una cosa che sta germinando e però che deve trovare le parole ma non può sapere quali parole finché non le ha trovate…Quando avrà trovato le parole, la cosa per cui le parole sono state trovate é scomparsa, lasciando in suo luogo la poesia”.
5) La citazione di R. Jakobson é riportata da M. Ramous, La Metrica, Garzanti, 1984, pag.15.
6) J. Cohen, Struttura del linguaggio poetico, Bologna, 1974, pag. 204.
7) id. pag. 169.
8)R. Jakobson (in Che cosa é la poesia, in Poetica e poesia, Torino, 1985) a pag. 53 scrive : “Ma in che cosa si manifesta la poeticità ? Nel fatto che la parola é sentita come parola e non come semplice sostituto dell’oggetto nominato”.
9) J. Cohen, cit., pag. 130. E poco prima: “ Se il poema viola il codice della parola, ciò avviene perché la lingua lo ristabilisca trasformandosi”.
10) id. pag. 184.
11)Michel Orcel, Esperienze….cit. pag. 125-153.
12) Maria de las Nieves Muniz Muniz, Esperienze….cit. pag. 107-124.
13) La differenza, si badi, tra il “detto“ poetico e il “detto“ prosastico non implica necessariamente che l’uno sia più “vero“ dell’altro, nè più “autenticoº : è solo “altro”. Si pensi alle considerazioni di Jakobson sul poeta Machá e su Puskin é sui diversi procedimenti linguistici : la poesia, il diario, la lettera creano diverse immagini. Sono due finzioni.
14) S. Freud, nel suo delizioso Gradiva (Torino, 1977) in certo modo assegnerà ai poeti un primato rispetto alla scienza.
15) Joanna Ugniewska, cit. pag. 275-283.