C'è quell'isola nel golfo di Napoli, Procida. D'inverno il mare copre le spiagge che in primavera tornano ad affiorare e sono fatte di sabbia nera, con sassetti piccolissimi di tanti colori che, a guardarli tutti insieme, sembrano neri anche loro. D'estate le stradine sono piene di gente seminuda, i turisti, che nei negozi sono sempre serviti per primi e che la sera affollano i ristoranti e i tavolini del bar e rimangono lì a non far niente.
I turisti di Procida sono quelli che non hanno tanti soldi da permettersi Capri, così un poco disprezzano queste spiagge nere di Procida, l'arruffoneria dei servizi, il porticciolo male attrezzato.
I Procidani non amano questi turisti ma sono contenti che da qualche anno possono farci un po' di soldi, con loro.
Ci sono poi quelli che non sono Procidani e non sono turisti. Questi amano l'isola e ci vanno d'inverno, in primavera e in autunno. Ci vanno da quando era una povera isola snobbata da tutti, ci vanno da quando a Terra Murata c'era il Carcere, da quando la Coricella non la conosceva nessuno, e la Chiaiolella era un piccolo porto quieto e dolce, e loro si fermavano a chiacchierare con i pescatori e la sera a suonare la chitarra e a bere dal fiasco quel vino che non era niente di speciale, ma fresco e allegro sì che lo era.
A questi piacciono le casettine dagli archi a volta, le scalette, la gente ruvida tornata gentile, quel mare nero-verde. E amano quei gelati, quel cappuccino caldo al bar e quei limoni grandi e quei carciofi da mangiare crudi in insalata.
Io sono tra questi che amano l'isola, e quella sera ero lì, occhi chiusi, braccia stese lungo il corpo, tra le dita granellini di questa sabbia che ho detto.