Paola Bianchetti Drigo (Da: Il Novecento, Antologia...)

21 Febbraio 2019

Paola Bianchetti Drigo
(Da: Il Novecento, Antologia di scrittrici italiane del primo ventennio, Bulzoni 1997)

Nata a Castelfranco Veneto nel 1876, figlia del garibaldino Valerio Bianchetti, Paola crebbe in una famiglia colta e ricca di relazioni. Compiuti gli studi classici, sposò, appena ventenne, l’ing. Giulio Drigo con il quale ebbe un figlio, Paolo. Visse a Bassano del Grappa, con frequenti viaggi a Roma, Milano, Padova, dove, trasferitasi nel 1937, morì nel 1938.
Attorno al 1912 Paola inizia a pubblicare racconti su varie riviste (Nuova Antologia, Illustrazione Italiana, Il Secolo XX...) e, nel 1913, pubblica, con Treves, la raccolta La fortuna. Seguiranno altre raccolte di racconti e novelle e, molto più tardi, nel 1936, quello che è considerato, giustamente, il suo capolavoro, Maria Zef, lodato da Pancrazi e altri critici del tempo e poi caduto nel dimenticatoio. Anche la riedizione del 1982, che pure é stata accolta dalla critica con parole di elogio, non è valsa a restituire il suo posto a questa scrittrice, forse “discontinua”, come scrive la Zambon, ma che, nella sua ultima e più grande prova, è riuscita a dare forma, grazie alla conquista del suo linguaggio, a un discorso ancora non pronunciato nella nostra storia letteraria.
Carlo Falconi, sul Dizionario Bompiani, scrive: “La Drigo fu esatta e sensibile pittrice di ambienti ed insieme dignitosa ma ferma documentatrice della lotta a cui vedeva costretta la donna dall’incomprensione e dalla prepotenza d’una gretta quanto inumana società”. E definisce Maria Zef “quasi un capolavoro”.
Sul Laterza, il giudizio è molto più convenzionale: Paola nutrirebbe sensibilità nei riguardi della problematica sociale, non sostenuta però da “una salda strutturazione ideologica”. Sarebbe anche lei, come altre, debitrice nei confronti di Verga, (oltre che di Capuana e Serao), soprattutto per la manifesta “pietà per i vinti”. In quanto a Maria Zef, qui la protagonista si distaccherebbe dalle solite donne “deboli e depresse” e mostrerebbe una “maggiore vitalità psicologica e un risalto tragico più netto nella ribellione alla fatalità del destino”.
A mio avviso, Maria Zef, del 1936, è un romanzo bellissimo del quale ancora non si è data una lettura adeguata: lo sguardo di Paola è, allo stesso tempo, così femminile e pure così poco “di parte” che davvero tocca, nel raccontare una vicenda tanto crudele e per niente eccezionale (allora come ora), una complessità ammirevole e rara nella storia letteraria. Lo zio Zef, che ha distrutto con la sua violenza i sogni della ragazza, e che si appresta a violare anche la sorellina minore, è stato anche il seduttore -e la ricostruzione dei fatti si ricompone un poco alla volta nella memoria e nella coscienza di Maria- della madre. Eppure non viene descritto come un mostro: ucciderlo è come eliminare una inevitabile calamità, che è tale per sua natura e non per degenerazione. In questo modo la repulsione per il vecchio si identifica con la denuncia generale di mentalità, strutture sociali, comportamenti: non si tratta della descrizione di una vicenda (il “caso” verista) ma della raffigurazione a tutto tondo dell’orrore contenuto nella vita. Forse anche per questo Maria Zef non ha avuto la fortuna che si meritava: per la difficoltà da parte dei lettori di accettare una messa a nudo profonda di una realtà tanto distruttiva. Non solo non si tratta di un mostro singolo, di un uomo violento e cattivo, ma non si tratta neanche di una falla nell’organizzazione sociale o insomma di qualcosa su cui il lettore possa scaricare il proprio malessere. Si tratta del modo di vivere, della solitudine dei lunghi inverni, della povertà abbrutente, della cultura di un ambiente, della naturalità di un maschilismo contro cui non vale denuncia o ribellione: esso non può che essere sradicato. E questo può avvenire solo con la eliminazione fisica di chi lo rappresenta.
Il racconto che qui presento, Tango, pubblicato nell’Almanacco del 1914, è altra cosa. L’ambiente e il linguaggio sono tutta un’altra cosa. A leggerlo dopo il romanzo nasce inevitabilmente il paragone con Maria Zef, il rimpianto della sua forza narrativa, della sua parola netta. Ci consoliamo pensando che tra le due opere corrono più di venti anni, che la maturità è arrivata col tempo, eccetera. Eppure, riflettendo, scopriamo che anche questa è una storia di “corruzione”. Nel romanzo essa si compie nel rozzo mondo contadino, qui nella raffinata società aristocratica. Di fronte ad un mondo con regole ineluttabili, sia pure impostate da culture differenti, Paolina, la protagonista del racconto, avvia una presa di posizione che sarà portata a conseguenze estreme da Maria (Zef): questo sarà reso possibile grazie alla piena maturità della scrittrice che, nel frattempo, non solo ha capito molto di più del mondo che la circonda, ma ha capito molto di più di se stessa. Ha capito il racconto che vuole fare, quello che ha preso forma nello scorrere del tempo, ha capito che il senso assoluto che vuole dare alla vicenda può realizzarsi unicamente nel mondo di Maria, con una Maria protagonista. E ha capito questo perché ha trovato il suo linguaggio, che ha dato forma al suo pensiero non pensato (prima) e dunque a se stessa. Se lo si legge da questo punto di vista Tango è la storia della corruzione della freschezza e della ingenuità; corruzione di una debolezza che ha sede nella sensibilità di Paolina. E’ attraverso la sensibilità che una donna può essere ferita. Le sorelle non potrebbero essere ferite perché, non credendo all’autenticità, all’amore, recitano una parte che hanno accettato. Paola (Drigo) e Paolina (la protagonista di Tango) dialogano: Paola vuol far riflettere Paolina che -lo denuncia perfino il diminutivo usato- è se stessa prima dell’iniziazione, prima della coscienza. Si alternano riflessioni dell’autrice e monologo interiore: Paolina scopre (e Paola svela) la noia di un mondo banale, l’ipocrisia dei salotti, le convenzioni sociali, la corsa al successo, la mentalità e i comportamenti del marito, del pretendente, di altri...uomini limitati e sciocchi; scopre che gli uomini appartengono ad altra “razza”, che l’amore è proiezione 1), è amore della perfezione che si attribuisce all’altro, cioè è amore di sé , dunque astratto e perdente, che tutto ciò dipende da un’educazione sciocca impartita alle ragazze....Pur avendo compreso tutto ciò, pur avendo chiaro il suo disprezzo per il marito e per l’amante (che si é rivelata donna civetta e distruttiva, perciò imperdonabile) Paolina, proprio a causa di questa educazione, continua ad amare Gerardo e cercherà “con tutte le armi” di riconquistarlo, cosciente che ciò significherà “dare addio a qualcosa di sé”.

Note:
1) Sull’amore come proiezione, ma anche come “capacità”, sul suo rapporto col mito di Narciso, cfr. A. Santoro, “Il fatto è che ingrasso”...cit.

Opere:

- La fortuna, Milano, Treves, 1913; 1915
- Tango, in Almanacco Italiano, Firenze, 1914
- Codino, Milano, Treves, 1918
- Col mio infinito, (poesie) Ferrara, 1921
- La signorina De Friores, Roma, 1929
- La signorina Anna, Vicenza, Jacchia, 1932
- Fine d’anno, Milano, Treves, 1936
- Maria Zef, Milano, Treves, 1936; 1937
- id. Milano, Garzanti, 1939, 1942, 1944, 1948, 1982

Bibliografia:
Dizionario Laterza; Dizionario Bompiani; EBBI; Bocelli; Musatti; Pancrazi; Russo; Valgimigli; Magris; Barberi Squarotti; Corti; Zambon.

Anna Santoro

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