Patrizia Melluso, La Quinta Stagione, Il paese delle donne (online 2017)

6 Maggio 2021

Per inquadrare la nuova opera di Anna Santoro nel contesto della sua produzione poetica è utilissimo leggere la prefazione al libro di Carla Locatelli.
Da lettrice, ma non da lettrice assidua di poesia – non lo sono – parlo di ciò che mi ha colpito nella Quinta Stagione; altra premessa necessaria, parlo delle nuove poesie, anche se è molto interessante la scelta editoriale di costruire il libro in due parti: nella prima la nuova produzione, nella seconda una raccolta di opere precedenti, anche di trent’anni, gli “antefatti – indizi – avvisaglie e no” (richiamati nel sottotitolo) che “reagiscono”, proprio come in un esperimento chimico, con le parole della quinta stagione.
Sicuramente, per la scelta dei temi, la poesia di Anna Santoro è poesia civile, e l’indignazione ne è la cifra: “Vergogna è oggi la parola chiave” dice concludendo “Per l’impasto osceno”, un vero catalogo delle bruttezze del tempo presente, di volta in volta esplorate nelle altre poesie della raccolta. Sul rifiuto di accoglienza verso i migranti, ad esempio: “per paura di un’immaginaria notte / con malagrazia / si nega spazio nelle case / a pellegrini già violati / nei recessi di anime e di corpi.” (Città corrotte da deliri). Ma anche sulla violenza quotidiana: scenari di violenza quotidiana, “e soprattutto di imbecillità” quelli dei motorini che sciamano nelle strade della città, quella “neapolis” violata dall’ignoranza e dalla cupidigia, da una borghesia stracciona, e da artisti e intellettuali “a tanto il chilo”. E l’invettiva scatta anche contro la televisione che ora “incanta e forma / il nostro immaginario” che si tratti “del delitto pompato / a scapito del morto” “oppure del ladro il farabutto il mascalzone / insomma del prescelto delinquente”.

Tuttavia, la cosa che mi colpisce veramente in quelle poesie non sono gli argomenti, ma i riferimenti “sensibili”, il parlare con vicinanza, confidenza, di corpi e di dolori. Ad esempio, il riferimento all’aria “per il respiro della pelle” dei poveri migranti ammassati nei barconi; oppure il “canto a squarciagola” dell’ambulante marocchino, “sfiancato dal sacco che gli grava il dorso”. Ed un altro elemento ancora, che proprio nella poesia dell’ambulante marocchino rende più complesso il discorso civile: l’ambulante che canta a squarciagola conserva “la necessità della felicità del vivere”, non la necessità del vivere – questo sarebbe un discorso sociologico e basta – ma la necessità della felicità del vivere.

C’è un altro aspetto della poesia di Anna Santoro che mi ha molto colpita. E’ il legame con la biografia, secondo me molto presente. Perché definire “quinta” – se non intendendola come “ulteriore” – la stagione presente? E qual è quel “passaggio” “troppo stretto”, “arduo come altri non sono stati mai / nel tempo e nello spazio / che ho vissuto”? Anna Santoro parla, come la hegeliana nottola di Minerva, quando tutto è già avvenuto, senza nascondere nulla del passaggio stretto che ha attraversato, e, tuttavia, oltre il passaggio non c’è l’astrazione della filosofia, ma ancora “la necessità della felicità del vivere”. Sempre civilmente, il passaggio è quello di una generazione che fa i conti con i propri fallimenti: “Ora noi generazione noi donne noi gente di sinistra / noi che cantiamo danziamo e soprattutto / che sogniamo non va bene.” Ma, anche qui, questo è solo un aspetto. La necessità della felicità del vivere sopravvive al passaggio: ci si può anche descrivere come “un impasto tra rigidità / e rassegnazione.”, si può anche pensare che “Quella grazia che ci fece dee / dilapidata giace – occhi socchiusi / mormorii di fonti avvelenate”, ma, ancora nella quinta stagione, di nuovo: “E poi accade di leggere qualcosa / brevi frasi o anche una parola sola – / di cogliere un lampo uno sfarfallio / o ascoltare una mezza serenata di tre note / e la poesia mi invade – l’amore per il faticoso / e gioioso vivere di tant* per riccioli di pasta fresca al sugo per la mano alzata ad asciugar la fronte / – oggi fa caldo – per quel passetto breve.”

Del resto, la Quinta Stagione si conclude con “E poi uno scatto un botto”: “Anche in questa quinta stagione / imprevista e non immaginata / ballo da sola limpida nell’aria / basta che tenga stretto / il capo della corda / che mi tendi e che sapientemente / intessi con mille dita e piedini al sole.”

Mentre mi accingevo a scrivere del libro di Anna Santoro, e mi rendevo conto di apprezzare, del suo lavoro, aspetti non facilmente richiudibili nel recinto della “poesia civile”, e di avere difficoltà a mettere in parole comprensibili questa sensazione, è accaduto qualcosa che, spesso, la poesia e la letteratura provocano: ti scavano dentro, fanno un lavoro sotterraneo, alla fine del quale scopri collegamenti, relazioni, significati che altrimenti non avresti osservato. E’ accaduto che, parlando dell’etica estrema di Levinas, il filosofo Aldo Masullo (su Il Mattino del 9 maggio) dicesse: “In questa epoca feroce, a ognuno di noi accade di smarrire la consapevolezza di non essere il solo unico, di non accorgersi che unici sono tutti coloro, le cui vite per il solo fatto di esserci, in un medesimo spazio e in un medesimo tempo, pongono a me stringente domanda e da me esigono risposta”. E ciò “nella stessa banalità quotidiana”.

Nella banalità quotidiana del tempo feroce che viviamo – come dice Masullo -, nel tempo in cui “l’oscuro avanza” – come dice Anna Santoro -, le vite degli altri, che condividono con noi lo stesso spazio (mondo) e lo stesso tempo, per il solo fatto di esserci ci pongono una domanda, interrogano la nostra responsabilità ed esigono risposta. Con la sua poesia civile, Anna Santoro non fa altro che rispondere, lei non ha mai fatto finta di non aver udito la domanda, per richiamare ancora le parole di Masullo. Dice Carla Locatelli, nella prefazione al libro, che si tratta “di un’istanza a sentirsi umanità prima di sentirsi minoranza”, ed ha ragione; ma, io penso, questa istanza non nasce da un imperativo morale, da un “dover essere”, ma da una consapevolezza, che non dobbiamo smarrire, che abita un livello più profondo: la domanda nasce dalla vita stessa e dalla vita stessa esige una risposta.
“La Quinta Stagione” (Kairòs, 2017)

Anna Santoro Napoletana (22-9-1945), vive a Roma. Femminista, impegnata in battaglie culturali, civili e politiche, è stata Presidente dell’associazione culturale L’Araba Felice, e socia fondatrice della Società delle Letterate. Ha lavorato sul rapporto tra corpo sessuato e segno/ suono/voce – discorso, realizzando performances e spettacoli di poesia (Metropolitripili, La ballata delle sette streghe, Ah l’amore!, Leggoleros, Per passione e per gioco, Concerto di vocali…), e articolando il tema in saggi (Questioni di metodo; La lettura non è neutra; La lettrice; La lettura ad alta voce, …) e in proposte didattiche per le scuole (Piano provinciale per la diffusione della Lettura); ha realizzato Manifestazioni e Progetti (A VIVA VOCE, Il suono della parola, Il libro parlante, Il piacere della lettura, Laboratorio di lettura a viva voce, Carovane di poesia e musica, Estate in solitudine…); ha curato Antologie poetiche anche sul web (Le Domininae – Arabafelice.it), su CD (Guerra), e ideato e/o collaborato a vari video.
Patrizia Melluso

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